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Quello che io intendevo e intendo per psicologo clinico

Nella medicina allopatica, cioè a base farmacologica orientata al contrasto della malattia, nella chirurgia, e in altri approcci medici a base sostanzialmente somatica generalmente si richiede all’operatore, sia esso medico o no, un suo minimo coinvolgimento psicologico con la persona assistita.

Invece nella psicologia clinica il coinvolgimento dell’operatore, chiamato psicologo clinico, con la persona da lui assistita è massimo in quanto è proprio dal rapporto tra queste due persone che possono determinarsi profondi e duraturi cambiamenti in ambedue.

Lo psicologo clinico può e dovrebbe usare, nella sua relazione terapeutica con la persona assistita, vari e flessibili tipi di procedimenti che, tutti moralmente condivisibili nella cultura di base delle persone che interagiscono, lo indirizzino e lo sostengano al fine di poter ottenere lo scopo che gli viene richiesto dalla persona sofferente che a lui si rivolge per risolvere o lenire la sua “sofferenza”.

Non intendo prendere in considerazione, in questa sede, ciò che inevitabilmente accade nei processi psichici “interni” dell’operatore che “in e dopo” ogni incontro terapeutico vive sempre in se stesso.

Nel rapporto terapeutico ogni psicologo clinico ha una propria “struttura psichica” che si è andata formando, sviluppando e consolidando nel corso della vita in seguito alle innumerevoli esperienze da lui vissute, fin dalla nascita, che determineranno, insieme e in sinergia con le strutture biologiche e anatomo-fisiologiche del cervello, i suoi personali “convincimenti” come persona.

Negli anni ottanta si è molto discusso, sia nelle università che negli ambiti professionali degli psicologi clinici come nei numerosi incontri e convegni svolti anche con la partecipazione delle varie forze politiche presenti sia sul territorio che nel parlamento, su come effettuare “un’eventuale selezione a monte”, cioè precedente l’iscrizione al nascente Ordine degli Psicologi, “delle persone che avrebbero potuto al meglio” svolgere la difficile e delicatissima professione dello psicologo clinico tenendo presente la “linea” di quanto già avvenuto nel 1987 con la pubblicazione del Decreto Ministeriale che, per la prima volta in Italia, introduceva il “numero chiuso” per alcuni indirizzi di laurea; cioè, ad esempio, il numero massimo degli studenti che avrebbero potuto iscriversi alla facoltà di medicina e chirurgia previo, però, il superamento di un “apposito test selettivo d’ingresso”… e ciò fino alla promulgazione della legge del 18 febbraio 1989 n°56, chiamata: Ordinamento della professione di psicologo.

Nella legge sopra indicata negli Articoli 1, 2 e 3 testualmente si legge quanto segue:

Articolo 1. Definizione della professione di psicologo.

La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione – riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alle persone, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.

Articolo 2. Requisiti per l’esercizio dell’attività di psicologo.

Per esercitare la professione di psicologo è necessario aver conseguito l’abilitazione in psicologia mediante l’esame di Stato ed essere iscritto all’apposito albo professionale.

L’esame di Stato è disciplinato con decreto del Presidente della Repubblica, da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
Sono ammessi all’esame di Stato i laureati in psicologia che siano in possesso di adeguata documentazione attestante l’effettuazione di un tirocinio pratico secondo modalità stabilite con decreto del Ministro della pubblica istruzione, da emanarsi tassativamente entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge.

Articolo 3. Esercizio dell’attività psicoterapeutica.

L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982 n°162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all’art.3 del citato decreto del Presidente della Repubblica.

Agli psicoterapeuti non medici è vietato ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica.
Previo consenso del paziente, lo psicoterapeuta e il medico curante sono tenuti alla reciproca informazione.

Prima della promulgazione della legge del 1989 ho avuto molte occasioni di poter partecipare agli incontri e alle discussioni che la precedettero perché frequentavo, con assiduità, le aule dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Dipartimento di Psicologia come collaboratore per l’Insegnamento di Psicologia Fisiologica con fondamenti biologici ed anatomo-fisiologici dei processi mentali del prof. Massimo Reitano da quando avevo conseguito la laurea in Psicologia indirizzo Applicativo, cioè clinico, nel giugno del 1982; quindi ero uno dei pochi psicologi clinici in Italia.

Iniziamo con il vedere l’Articolo 3 della legge del 1989 riguardante l’esercizio dell’attività psicoterapeutica.

Io, in tutti gli incontri, portavo avanti insieme ad altri colleghi psicologi clinici la necessità di cambiare alcune “tendenze” che andavano, progressivamente ma con forza, affermandosi e consolidandosi.

La più semplice da inquadrare e apparentemente più logica e immediata da comprendere era che noi NON avremmo più voluto che il titolo di psicoterapeuta potesse “ancora” essere acquisito con una “semplice” frequentazione, e della relativa valutazione privatistica, di un corso almeno quadriennale presso scuole di specializzazione private ma che, per ottenere tale titolo, si sarebbe dovuto acquisirlo, come per tutte le altre specializzazioni nel campo della medicina e chirurgia, frequentando e superando un corso di specializzazione, sempre almeno quadriennale, “esclusivamente” presso le università che, quasi certamente, avrebbero teso a superare tutte le visioni personologiche delle varie scuole di psicoterapia per orientare i nuovi corsi universitari su basi più solide e non più su teorie che ben poco hanno di comprovabile ma, sulle quali, ognuno voleva e poteva mettere la propria “bandierina” come “suo fine conoscitore” cercando così, finalmente, di superare quanto purtroppo previsto e nei fatti successivamente e con “molta benevolenza” riconfermato, ma a nostro parere in modo profondamente sbagliato, nel decreto del 10 marzo 1982 n°162 del Presidente della Repubblica che già “normava”, nel passato, l’attività psicoterapeutica in quanto era sempre stata lampante la sua inadeguatezza in relazione alle basi scientifiche che ne validassero le metodologie perché era finalmente giunto il momento di “qualificare” in modo diverso e molto più stringente, nella nuova legge, la “nuova” figura professionale dello psicoterapeuta nel campo degli psicologi clinici facendo ulteriormente e a riguardo notare che, in precedenza, non “esistevano” gli psicologi clinici specificatamente riconosciuti come categoria professionale ben definita.

Se ciò fosse avvenuto, regolamentando in modo diverso e come da noi indicato il conseguimento del titolo di psicoterapeuta, si sarebbe potuto finalmente estromettere qualunque interesse privatistico, economico e di grave acquiescenza del pubblico al privato facendo finire “il fatto” che la nuova professione dello psicologo clinico venisse ancora cooptata, nella sua specializzazione psicoterapeutica, dalle scuole private!

Ma questo non è avvenuto e ciò ha inevitabilmente portato, con il tempo e come noi dicevamo e prevedevamo, al nascere e al fiorire di un gran numero di scuole private di specializzazione che oggi in Italia sono oltre 330, delle quali circa 200 riconosciute dal MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) che spaziano in “27 orientamenti diversi, divergenti e in contrasto tra loro di psicoterapie” che “sfornano” psicoterapeuti rilasciando attestazioni relative ai più disparati “pseudo convincimenti e conoscenze” che hanno portato l’Italia, in pochi anni, ad avere un numero abnorme ed assurdo di psicoterapeuti quasi tutti in conflitto metodologico in relazione agli apprendimenti acquisiti nelle singole “scuole” di formazione frequentate.

Oggi gli psicoterapeuti in Italia, e ciò solo in 25 anni circa dalla nascita dell’Ordine degli Psicologi, sono otre 50.000… cioè un numero molto, molto grande rispetto ad ogni altro paese d’Europa!… Grande numero sì… ma basi, capacità tecnico/operative e qualità scientifiche?

Andiamo ora a vedere l’Articolo 2 della legge del 1989 riguardante: requisiti per l’esercizio dell’attività di psicologo.

1 Si stabilisce la necessità di superare l’esame di Stato e dell’iscrizione all’ordine degli psicologi.

2 Viene stabilito che le regole per l’esame di Stato saranno disciplinate con decreto del Presidente della Repubblica.

3 Sono ammessi all’esame di Stato i laureati in psicologia che siano in possesso di adeguata documentazione attestante l’effettuazione di un tirocinio pratico secondo modalità stabilite con decreto del Ministro della pubblica istruzione, da emanarsi tassativamente entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge.

Per quanto riguarda il “tirocinio pratico” sarà successivamente stabilito che avrà la durata di un anno e in questo tirocinio, pur stante la sua durata “brevissima” per “cercare di acquisire (?)” almeno le “minime capacità rudimentali” per svolgere la delicatissima professione dello psicologo clinico, niente è ancora previsto in relazione alle “caratteristiche psichiche del tirocinante” che, in seguito, dovrebbe andare a svolgere questa professione oltre al fatto che “NON è prevista alcuna valutazione terza/super partes” per verificare ciò che questo ha “effettivamente imparato a praticare in relazione al rapporto terapeutico” stabilito all’Articolo 1 della legge del 1989.

Vediamo ora cosa dice l’Articolo 1 in relazione alla professione dello psicologo.

Articolo 1. Definizione della professione dello psicologo.

1 La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambiti.

Quindi stanti gli Articoli 1 e 2 della legge del 18 febbraio 1989 n°56, e a seguire l’Articolo 3 sulla psicoterapia, per poter svolgere “correttamente” questa delicatissima “professione medica” come psicologo clinico, professione da intendersi nella sua più ampia accezione del termine “professione medica” dove l’operatore è completamente coinvolto sia dal punto di vista psicologico che somatico, possono venire ammesse all’esame di Stato tutte le persone più strane o derelitte, credenti o fideistiche in qualunque “cosa” che asserisca le idee più insulse e indimostrabili o anche affette dai “disturbi psichici” più gravi.

Tutti noi psicologi clinici che “lavoravamo sul campo” frequentemente incontravamo, per la nostra attività professionale quotidiana sia nei servizi pubblici che privatistica, persone che ci facevano confrontare con i loro disturbi psichici, o psicosomatici, o relazionali, o lavorativi, o ambientali, o familiari, o tutti “commistionati” tra loro.

Le persone sopra indicate e da noi incontrate e assistite/curate potevano, possono e potranno iscriversi all’Ordine degli Psicologi, e in seguito degli psicoterapeuti, in quanto NON esiste niente nella legge “che preveda una valutazione psicologica approfondita” di coloro che intendano presentarsi all’esame di Stato per, dopo, iscriversi all’Ordine degli Psicologi.

Molti di noi eravamo convinti che la legge dovesse prevedere, come già detto in precedenza, tale fondamentale valutazione psicologica e, se questa valutazione non fosse stata idonea, la persona non doveva essere ammessa a sostenere l’esame di Stato!

Oltre a quanto detto sopra in relazione ai nostri convincimenti, relativi alla “necessità” di avere uno “sbarramento selettivo” per le persone in condizioni di “non idoneo” funzionamento psichico, io ed altri colleghi eravamo anche convinti che nella professione di psicologo clinico la condizione “prodromica” fondamentale, per potersi rapportare con correttezza verso una persona sofferente psichicamente, dovesse essere quella di vivere in “noi stessi” un profondo rispetto per ogni essere umano sia come persona/corpo che come persona/idee, anche se da noi non condivise, affinché potessimo porci verso l’altro con quel profondo senso di rispetto che “solo” ci dovesse sostenere per far sì che la persona sofferente potesse con la sua fatica, il suo impegno, i suoi dubbi e il suo travaglio e dolore intellettuale e morale “trovare la sua strada” in relazione alla quale il lavoro dello psicologo clinico doveva esserne esclusivamente il “sostenitore” ma sempre nella libertà individuale di colui che gli chiedeva aiuto e, tale aiuto, era da prestare nel fondamentale principio del rispetto per tutti gli altri esseri umani.

Tutto ciò che lo psicologo clinico fa per incompetenza nel non aver rispettato la libertà dell’altro condizionandolo o indirizzandolo, volontariamente o involontariamente, verso i propri convincimenti è una sua grande colpa non solo personale ma anche a carico dell’Ordine degli Psicologi che gli ha rilasciato il potere all’esercizio della professione e, questa Struttura, non se ne può e non se ne deve lavare le mani “asserendo”: “non è colpa mia se ciò è accaduto o accade perché sono nata e sostenuta nel mio sviluppo per far crescere il numero degli iscritti ad un’organizzazione nella quale “NON dovevo valutare” le persone né per le loro caratteristiche di moralità, né per il loro equilibrio psichico, né per i loro convincimenti sul valore della libertà individuale di ogni persona che, invece, avrebbe dovuto sempre essere difesa e sostenuta nel suo sviluppo e non piegata e distorta”.

Voglio ora ricordare, a titolo esemplificativo ma che è sempre accaduto sia nel passato e che accadrà nel futuro, i dati recenti relativi alle “incidenze percentuali nella popolazione maggiorenne” certificate dal Ministero della Salute per il 2015, e pubblicato il 14 dicembre 2016, secondo le valutazioni clinico-diagnostiche ottenute in base al manuale ICD-9-CM (Classificazione Internazionale delle Malattie e loro Modificazioni Cliniche) dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) relative all’incidenza di alcune malattie in Italia relative a coloro che si sono rivolti, anche per una sola volta l’anno, ai DSM (Dipartimenti di Salute Mentale) ottenuti tramite il S.I.S.M. (Sistema Informatico per la Salute Mentale): depressione, alcolismo e tossicomanie, disturbi della personalità e del comportamento, mania e disturbi bipolari, schizofrenia e altre psicosi, sindromi somatiche e somatoformi — che, si rileva, interessano una percentuale molto importante della popolazione riguardando, “solo per questi problemi clinici in forma grave”, circa 160 persone maggiorenni ogni 10.000, quindi, circa 1.600 persone ogni 100.000 abitanti.

Evidenzio,
in relazione alle classificazioni nosografiche/diagnostiche/malattie (?) sopra indicate, che molte altre persone ne soffrono, seppur in modo “meno grave” ma pur sempre invasivo, con “squilibri anche forti” nello spettro dei loro pensieri e comportamenti ma tali da non farle ricorrere ai servizi dei DSM.

Invece non ci sono i dati, ma è possibile valutarli almeno in modo tendenziale e indicativo, delle persone affette da molti altri tipi di disturbi psichici, anche gravi, ma che generalmente NON ricorrono ai Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) quali: disturbi gravi della nutrizione e dell’alimentazione, sessuali, delle purtroppo frequentissime violenze di genere sia fisiche che psicologiche sulle donne, di violenze fisiche o psichiche sui bambini sia in ambito familiare che scolastico, di pedopornografia e pedofilia, di ludopatia, di disturbi sociopatici e psicopatici etc… che fanno ulteriormente e fortemente aumentare il numero delle persone “sofferenti psichicamente” (malate ?), con o senza la loro cognizione, a un livello molto, molto maggiore di quello sopra indicato nei dati statistici del 2015, e pur sempre dati molto settoriali, pubblicati dal S.I.S.M.

Inoltre non rientrano in queste “categorie” tutte le persone, e purtroppo non sono poche visto che il consumo di psicofarmaci in Italia è sempre stato molto alto e che va continuamente aumentando, che hanno sofferenze psichiche e/o psicofisiche anche importanti e che, non rivolgendosi alle strutture pubbliche ma solo al medico di base o allo specialista privato, non vengono censite.

Quanto evidenziato nei punti precedenti, in relazione alla sua globalità, è certamente “molto diffuso” nella popolazione quindi, molte persone che vengono ammesse a sostenere l’esame di Stato e che probabilmente lo supereranno, pur essendo affette da tali “gravi carenze psichiche”, diventeranno psicologi clinici iscrivendosi all’albo.

Voglio evidenziare che noi abbiamo i mezzi tecnici e professionali, in primis ma non solo i test psicologici, per poter individuare tali persone in quanto, a riguardo dei loro convincimenti e comportamenti, sono proprio questi che usavamo, usiamo e useremo integrandoli, eventualmente, sia con l’osservazione diretta che con i colloqui psicologici individuali, ove lo ritenessimo utile e necessario, per approfondire e ben valutare la conoscenza psicologica relativa alla persona esaminata.

La conseguenza delle “scelte pilatesche” sopra indicate e descritte per sommi capi, nella legge prima e nell’Ordine degli Psicologi dopo, nel NON ricercare e rilevare nelle persone prima dell’ammissione all’esame di Stato i loro tratti umano/relazionali di base e nemmeno quelli ancor più “gravi e dirimenti” relativi ai loro disturbi psichici, che come detto e accertato riguardano probabilisticamente un gran numero di loro, queste si siano iscritte, e continueranno ad iscriversi, all’albo degli psicologi facendo sì che l’Italia sia diventata un popolo di poeti, di santi, di navigatori… e di psicologi clinici NON “valutati psicologicamente” in precedenza!… Perché è facile verificare che in Italia abbiamo già superato il numero “monstre” di 110.000 psicologi… con uno psicologo ogni 500 persone circa… e aumentano… aumentano!

Quelli sopra esposti erano e sono i miei convincimenti relativi alle caratteristiche fondamentali che una persona deve avere per poter svolgere correttamente la professione dello psicologo clinico ma, NON essendo stato previsto niente di tutto questo nella legge del 1989 sull’Ordinamento della professione di psicologo, scelsi di lasciare la professione che praticavo NON iscrivendomi all’albo però continuando, fin da allora ed ancor oggi, a prestare aiuto e sostegno alle persone sofferenti che a me si rivolgono.

Voglio ora fare “due domanda al vento”…

“Ma per i laureati in medicina e chirurgia che conseguono la specializzazione in psicoterapia, ed eserciteranno come psicoterapeuti, vengono effettuate queste valutazioni psicologiche nei loro confronti?…”

“E per i laureati in medicina e chirurgia che si specializzeranno in psichiatria ed eserciteranno come psichiatri, oltre che con un’ulteriore semplice domanda saranno iscritti all’albo degli psicoterapeuti, vengono effettuate queste valutazioni psicologiche nei loro confronti?…”

Ripeto la celebre considerazione fatta da Paul Watzlawick, studioso di fama mondiale all’inizio degli anni 70, dopo la pubblicazione del DSM-3 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali usato anche da noi psicologi clinici del tempo insieme, ma anche in opposizione, ad altri manuali di psicologia clinica) che, con l’eliminazione dell’omosessualità dai disturbi psichiatrici precedentemente sancita nei manuali DSM-1 e 2, aveva fatto sì che milioni di persone nel mondo fossero state “curate con un semplice tratto di penna”.

Paul Watzlawick intendeva sottolineare, con ciò, “l’inaffidabilità e la pericolosità” di forme di classificazione ed etichettamento “particolarmente nell’ambito psichiatrico”.

Da ultimo, ma non ultimo per importanza in relazione a quanto ho affermato e sostenuto in precedenza, ne abbiamo avuta una drammatica riprova con quanto avvenuto in un ambito diverso ma in relazione a un “disturbo psichico gravissimo” sabato 25 agosto e domenica 26 agosto 2018, e anche nei giorni successivi, quando Papa Francesco ha nuovamente e con decisione affrontato, a Dublino capitale della Repubblica d’Irlanda, la situazione e la posizione della Chiesa cattolica, come già aveva fatto anche il suo predecessore Papa Benedetto XVI e, precedentemente ma in maniera “meno decisa” Papa Giovanni Paolo II, in relazione “alla pedofilia, cioè degli abusi sui bambini perpetrati dai sacerdoti”: “… il fallimento delle autorità ecclesiastiche quali vescovi, superiori religiosi, sacerdoti ed altri nell’affrontare adeguatamente questi crimini ripugnanti, commessi dai sacerdoti, ha giustamente suscitato indignazione e rimane causa di sofferenza e di vergogna per la comunità cattolica. Io stesso condivido questi sentimenti” e a seguire “…ho ribadito l’impegno, anzi un maggiore impegno, per eliminare questo flagello nella Chiesa, a qualsiasi costo morale e di sofferenza” ed ha, nuovamente, anche riparlato “… di corruzione e di coperture interne alla Chiesa”.

Al Papa sono state anche ricordate ed evidenziate, da parte del Presidente irlandese, “le adozioni illegali commesse nel novecento nelle Magdalene Laundries” molte gestite da suore, appartenenti a vari ordini, per conto della Chiesa (Case Magdalene, cioè istituti femminili che accoglievano ragazze orfane e ragazze madri ritenute, per questo, immorali per via della loro condotta considerata peccaminosa) e, nell’incontro successivo avuto con alcune persone ormai adulte “ma strappate da piccole alle madri” gli è stato detto che ci sono circa “centomila madri sole a cui hanno tolto i loro bambini” per darli in adozione.

Per quanto riguarda il comportamento criminoso, “molto gravemente disturbato” e distorto delle suore che “dirigevano e vivevano” nelle Magdalene Laundries Papa Francesco ha chiesto, nuovamente, perdono impegnandosi a… .

La “depravazione psichica”, da intendersi come “disturbo psichico”, può annidarsi e si annida dovunque e non soltanto nelle persone prese individualmente ma in qualunque posto della società e anche nei “luoghi e strutture più impensate” per lo scopo che dicono di prefiggersi ma nelle quali, invece, vari uomini che le compongono le tradiscono totalmente e brutalmente in relazione al fine da loro promesso e, inoltre, si verifica anche che “altre persone che sanno dei crimini o delle malefatte siano conniventi con loro”.

Per concludere… “il disturbo psichico… anche grave” si può annidare e mascherare dovunque ed è, quindi, necessario e importante individuarne l’eventuale “portatore” per “proteggere e difendere” le persone che fruiranno del lavoro degli psicologi clinici affinché non debbano MAI incontrarne uno.